sabato 12 giugno 2010

IMPRESA SOCIALE

Nei mesi scorsi si è discusso animatamente sulla possibile compartecipazione agli utili, e conseguente cogestione dell’impresa, da parte dei lavoratori nei processi di produzione aziendale. La reazione degli industriali è stata facilmente prevedibile, con l’assoluta contrarietà mostrata dalla Marcegaglia, presidente di CONFINDUSTRIA, che ha lanciato la solita controproposta sull’adeguamento salariale dei lavoratori alleggerendo la pressione fiscale nei confronti dell’impresa. Nulla di nuovo quindi, i soliti aiuti di stato invocati dai capitalisti. Più curiosa ed emblematica invece è stata la reazione da parte sindacale, che si è scomposta e mostrata oltremodo scettica di fronte a questa possibilità. Le motivazioni sono state le più svariate: rischi troppo elevati per i lavoratori quelli di legarsi mani e piedi all’azienda per la quale lavorano; inadeguatezza da parte del mondo sindacale di nominare dei rappresentanti in grado di ricoprire ruoli dirigenziali all’interno delle imprese; aumento del dislivello sociale tra lavoratori di imprese più o meno virtuose (questa è veramente la più originale); la socializzazione e il corporativismo sono idee Fasciste e quindi sbagliate (ma va?!). La verità è solo e soltanto che in questo modo salterebbero le poltrone calde e comode, sulle quali oggi siedono molti finti difensori dei più deboli. I sindacati nazionali non avrebbero più ragioni di esistere e forse questa gente tornerebbe a lavorare, nel senso lato della parola. E’ vero che la socializzazione delle imprese inserita in un contesto politico, sociale e culturale, come quello moderno sarebbe forse deleteria per tutte le componenti chiamate in causa. Nella visione individualista demo-borghese e capitalistica, gli industriali, o titolari di impresa, e le maestranze lavorative, vorrebbero guadagnare sempre di più lavorando meno. Il soggetto principale, ovvero l’Azienda, viene meno se non c’è ricchezza da ridistribuire. Il profitto è il verbo imperante delle multinazionali che aprono e chiudono aziende come stessero giocando ad una partita di scacchi, gettando nella disperazione migliaia di poveri diavoli colpevoli solo di lavorare in un paese piuttosto che in un altro. Gli sforzi di Imprenditori e Lavoratori, oggi come oggi, non confluiscono più nell’Azienda e nel suo miglioramento e sostentamento, ma nell’arricchimento di avidi azionisti banchieri e faccendieri. Una volta però c’erano Imprenditori, non capitalisti, che hanno creato veri imperi dedicandosi in tutto e per tutto alle loro Aziende, definendo le persone con le quali lavoravano collaboratori, e non dipendenti, e con i quali a volte fondevano le proprie vite al punto di condividere gioie e dolori, sacrifici e rinunce. Il lavoro sfociava nella sua naturale dimensione che è quella del mezzo del quale ci si avvale per la sopravvivenza, l’Impresa era inquadrata in un’ottica Sociale perché prima di tutto c’era l’Orgoglio e la Passione, la Fedeltà e la Lealtà, a difesa della propria attività. Perché d’altronde non esisterebbero Imprenditori se non ci fossero Lavoratori, e viceversa, che in una sola parola noi ancora, romanticamente e ostinatamente, chiamiamo semplicemente Popolo!